L'Ipotenusa
V.i.t.r.i.o.l. Visita Interiora Terrae Rettificando Invenies Occultum Lapidem
giovedì 4 agosto 2011
martedì 12 luglio 2011
RITORNO A SE STESSI - Martin Buber
Rabbi Shneur Zalman, il Rav della Russia, era stato calunniato presso le autorità da uno dei capi dei mitnagghedim, che condannavano la sua dottrina e la sua condotta, ed era stato incarcerato a Pietroburgo. Un giorno, mentre attendeva di comparire davanti al tribunale, il comandante delle guardie entrò nella sua cella. Di fronte al volto fiero e immobile del Rav che, assorto, non lo aveva notato subito, quest'uomo si fece pensieroso e intuì la qualità umana del prigioniero. Si mise a conversare con lui e non esitò ad affrontare le questioni più varie che si era sempre posto leggendo la Scrittura. Alla fine chiese: "Come bisogna interpretare che Dio Onnisciente dica ad Adamo: «Dove sei?». "Credete voi - rispose il Rav - che la Scrittura è eterna e che abbraccia tutti i tempi, tutte le generazioni e tutti gli individui?". "Sì, lo credo", disse. "Ebbene - riprese lo zaddik - in ogni tempo Dio interpella ogni uomo: ‘Dove sei nel tuo mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?’. Dio dice per esempio: ‘Ecco, sono già quarantasei anni che sei in vita. Dove ti trovi?’".
All'udire il numero esatto dei suoi anni, il comandante si controllò a stento, posò la mano sulla spalla del Rav ed esclamò: "Bravo!"; ma il cuore gli tremava.
Qual è il senso di questa storia?
A prima vista ci ricorda quei racconti talmudici in cui un romano o un altro pagano consulta un saggio ebreo a proposito di un passo della Bibbia per mettere in luce una pretesa contraddizione nell'insegnamento di Israele, e riceve una risposta che dimostra l'assenza di contraddizione o che confuta la critica in altro modo, con l'aggiunta a volte di un ammonimento a carattere personale.
Ma non tardiamo a notare una differenza significativa tra i racconti del Talmud e questo chassidico, anche se questa differenza appare all'inizio più importante di quanto sia in realtà. La risposta infatti viene data su un piano diverso da quello in cui è stata formulata la domanda.
Il comandante cerca di smascherare una pretesa contraddizione nelle credenze ebraiche: nel Dio in cui credono, gli ebrei vedono l'Essere onnisciente, ma la Bibbia gli attribuisce domande analoghe a quelle che farebbe chiunque ignori una cosa e voglia apprenderla. Dio cerca Adamo che si è nascosto, fa risuonare la sua voce nel giardino e chiede dov'è; ciò significa che non lo sa, che è possibile nascondersi da lui: dunque Dio non è l'onnisciente.
Ma, invece di spiegare il passo biblico e risolvere l'apparente contraddizione, il Rabbi se ne serve solo come punto di partenza, utilizzandone il contenuto per rivolgere al comandante un rimprovero per la vita da lui condotta fino a quel momento, per la sua mancanza di serietà, la sua superficialità e l'assenza di senso di responsabilità nella sua anima. La domanda oggettiva - che, in fondo, per quanto qui sia posta senza secondi fini, non è però una domanda autentica bensì una semplice forma di controversia - riceve una risposta personale; anzi, invece di una risposta, ne risulta un ammonimento a carattere personale. Di queste repliche talmudiche non è rimasto apparentemente altro che l'ammonimento che a volte le accompagnava.
Ciò nonostante, esaminiamo il racconto più da vicino. Il comandante chiede chiarimenti sul brano del racconto biblico che riguarda il peccato di Adamo. La risposta del Rabbi mira a questo, a dirgli: "Adamo sei tu. E a te che Dio si rivolge chiedendoti: ‘Dove sei?’". Apparentemente non gli ha fornito nessun chiarimento sul significato del brano biblico in quanto tale. Ma in realtà la risposta illumina sia la situazione di Adamo nel momento in cui Dio lo interpella, sia la situazione di ogni uomo in ogni tempo e in ogni luogo. Infatti, non appena si renderà conto che la domanda biblica è indirizzata a lui personalmente, il comandante prenderà necessariamente coscienza della portata dell'interrogativo posto da Dio: "Dove sei?", sia esso rivolto ad Adamo o a chiunque altro. Ogni volta che Dio pone una domanda di questo genere non è perché l’uomo gli faccia conoscere qualcosa che lui ancora ignora: vuole invece provocare nell'uomo una reazione suscitabile per l'appunto solo attraverso una simile domanda, a condizione che questa colpisca al cuore l'uomo e che l'uomo da essa si lasci colpire al cuore.
Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo. Per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l'esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e persistendo sempre in questo nascondimento "davanti al volto di Dio", l'uomo scivola sempre, e sempre più profondamente, nella falsità. Si crea in tal modo una nuova situazione che, di giorno in giorno e di nascondimento in nascondimento, diventa sempre più problematica. È una situazione caratterizzabile con estrema precisione: l'uomo non può sfuggire all'occhio di Dio ma, cercando di nascondersi a lui, si nasconde a se stesso. Anche dentro di sé conserva certo qualcosa che lo cerca, ma a questo qualcosa rende sempre più, difficile il trovarlo. Ed è proprio in questa situazione che lo coglie la domanda di Dio: vuole turbare l'uomo, distruggere il suo congegno di nascondimento, fargli vedere dove lo ha condotto una strada sbagliata, far nascere in lui un ardente desiderio di venirne fuori.
A questo punto tutto dipende dal fatto che l'uomo si ponga o no la domanda. Indubbiamente, quando questa domanda giungerà all'orecchio, a chiunque "il cuore tremerà", proprio come al comandante del racconto. Ma il congegno gli permette ugualmente di restare padrone anche di questa emozione del cuore. La voce infatti non giunge durante una tempesta che mette in pericolo la vita dell'uomo; è "la voce di un silenzio simile a un soffio", ed è facile soffocarla. Finché questo avviene, la vita dell'uomo non può diventare cammino. Per quanto ampio sia il successo e il godimento di un uomo, per quanto vasto sia il suo potere e colossale la sua opera, la sua vita resta priva di un cammino finché egli non affronta la voce. Adamo affronta la voce, riconosce di essere in trappola e confessa: "Mi sono nascosto". Qui inizia il cammino dell'uomo.
Il ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell'uomo l'inizio del cammino, il sempre nuovo inizio del cammino umano. Ma è decisivo, appunto, solo se conduce al cammino: esiste infatti anche un ritorno a se stessi sterile, che porta solo al tormento, alla disperazione e a ulteriori trappole. Quando il Rabbi di Gher arrivò, nell’interpretazione della Scrittura, alle parole rivolte da Giacobbe al suo servo – "Quando ti incontrerà Esaù, mio fratello, e ti domanderà: ‘Tu, di chi sei? Dove vai? Di chi è il gregge che ti precede?’" - disse ai suoi discepoli: "Osservate come le domande di Esaù assomiglino a questa massima dei nostri saggi: ‘Considera tre cose: sappi da dove vieni, dove vai e davanti a chi dovrai un giorno rendere conto’. Prestate molta attenzione, perché chi considera queste tre cose deve sottoporre se stesso a un serio esame: che in lui non sia Esaù a porre le domande. Anche Esaù infatti può porre domande su queste tre cose, sprofondando l'uomo nell'afflizione".
Esiste una domanda demoniaca, una falsa domanda che scimmiotta la domanda di Dio, la domanda della verità. La si riconosce dal fatto che non si ferma al "Dove sei?" ma prosegue: "Nessun cammino può farti uscire dal vicolo cieco in cui ti sei smarrito". Esiste un ritorno perverso a se stessi che, invece di provocare l'uomo al ravvedimento e metterlo sul cammino, gli prospetta insperabile il ritorno e così lo inchioda in una realtà in cui ravvedersi appare assolutamente impossibile e in cui l'uomo riesce a continuare a vivere solo in virtù dell'orgoglio demoniaco, dell'orgoglio della perversione.
domenica 2 settembre 2007
La rinascita della Berlino ebraica
«È una benedizione per l´idea che la Germania ha di se stessa», commenta lo storico professor Michael Stuermer, ex consigliere di Helmut Kohl. «Non vuol dire dimenticare, ma si è avviato un processo di guarigione degli spiriti». Il grande momento solenne verrà domani, alla Rykestrasse, nel cuore di Prenzlauerberg, il quartiere chic-alternativo dell´Est. Là riaprirà i battenti la più vasta sinagoga della città. Era stata costruita nel 1904, quando gli ebrei erano l´élite imprenditoriale, scientifica e artistica della Berlino del Kaiser.
L´architetto Johann Hoeniger la volle come «tempio per mille uomini, mille donne, mille luci». In stile classico, è stata restaurata con cura dagli architetti Ruth Golan e Kay Zareh. «A Berlino, per fortuna, gli ebrei non vivono più col sentimento di dover abitare con le valigie già pronte», dice Stuermer. La città che subì Hitler, la Shoah, la guerra, poi il Muro, è diventata la capitale del paese in cui la comunità ebraica registra la crescita più veloce del mondo. Già dieci sinagoghe, 12mila esponenti, un´attiva presenza nella vita culturale, economica e nei media. Si torna a prendere radici, e ci si sente abbastanza forti e sicuri anche da dividersi: confronti e polemiche tra ebrei liberali e ortodossi sono vivacissimi a Berlino. Una nuova roccaforte della mistica ortodossa sarà il centro Lubavitch. Con una Sinagoga, una Mikve (il luogo del bagno rituale), una biblioteca, un ristorante. E una riproduzione del Muro del Pianto, lunga ben trenta metri. «Vogliamo vivere qui secondo le nostre tradizioni», spiega il rabbino Yehuda Teichtal, trasferitosi da Brooklyn.
La sinagoga di Rykestrasse fu l´unica che i nazisti non dettero alle fiamme: non volevano mettere in pericolo gli edifici «ariani» circostanti. Ma la devastarono, distrussero i libri sacri, la trasformarono in centro amministrativo militare. Prima di Hitler, le sinagoghe qui erano 170, gli ebrei più famosi erano geni di livello mondiale, da Einstein a Rathenau. Furono spazzati via dalla ferocia del regime: prima venne, già nell´aprile 1933, l´esproprio di ogni loro bene. I tedeschi ariani rimasero a guardare, i più ricchi tra loro si arricchirono. Poi nel 1938 il Pogrom della Notte dei cristalli. Poi la Conferenza di Wannsee, la «soluzione finale», il genocidio con la perfezione industriale made in Germany. Adesso, con la nuova diaspora dall´est, la cultura ebraica torna ad arricchire Berlino. Riporta in città, secondo Stuermer, quello spirito borghese illuminato, quella cultura, che la città aveva perso con i suoi ebrei. «Ma la ferita ha bisogno di molto tempo per rimarginarsi: il faut donner du temps au temps».
martedì 28 agosto 2007
Religione, D-o e democrazia
Il dibattito sui mutevoli equilibri tra politica e religione resta uno degli argomenti con cui la scienza e la filosofia politica ha provato a confrontarsi in tutte le diverse epoche storiche.
Da quella frase di Gesù – “Date a Cesare quel che è di Cesare, date a D-o quel che è di D-o” – il mondo politico ha dovuto confrontarsi con una realtà più complessa e dai confini meno definiti di quella della forma dello Stato ideale.
A seconda delle varie epoche il punto di equilibrio di questo rapporto si è spostato variamente verso uno di questi due poli: si passa dalle teorie più radicali della filosofia politica medievale alla visione marxista della religione, passando attraverso la teoria dei due soli.
Nei Paesi che potremmo definire occidentali un equilibrio più o meno stabile è stato trovato attraverso l’applicazione del concetto di laicità per il quale la religione deve restare una caratteristica propria della sfera personale degli individui che deve essere comunque garantita dallo Stato.
Ma benché altre culture non siano giunte alla teorizzazione e all’applicazione di questo concetto, non riuscendo ad arrivare una netta separazione tra potere politico e religioso, queste sono comunque costrette a confrontarvisi.
Credo che si possa trovare un equilibrio perfetto tra questi due poli e che questo dipenda dalla cultura e dal epoca storica. Non per questo motivo bisognerebbe limitarsi a una semplice ammissione di questa realtà.
In questa continua relazione di frizione il ruolo più complesso è quello di quei credenti che vogliano partecipare attivamente alla vita politica del proprio Paese o della propria comunità. In realtà a mio parere il discorso andrebbe posto differentemente. Il fatto di essere profondamente convinti dell’esistenza dell’Onnipotente non è di per sé strettamente esposta a tensioni con il campo politico. Si prenda l’esempio della Massoneria, salvo per quella francese, in cui la credenza nell’Essere Suprema non pone alcuna complicazione o difficoltà a partecipare alla vita politica e ad essere buoni cittadini. Molti politici italiani sono massoni e questa loro appartenenza non inficia in alcun modo la loro azione pubblica.
Il discorso muta leggermente quando si sposta il discorso sulle religioni, ossia si passa a un rapporto fra due diverse istituzioni che obbediscono ognuna a diverse regole e leggi. In questo caso il rapporto si fa conflittuale.
E’ il caso delle tre religioni monoteistiche, anche se il discorso, nella sua eccezione di rapporto tra due diversi poli, potrebbe essere ristretto alla sola esperienza cristiana. Le eccezioni non mancano ma se si parla di democrazie nel senso proprio del termine il numero di queste è approssimabili allo zero. Non per questo però si dovrebbe limitare il discorso al solo cristianesimo peraltro già trattato da Weber in “Etica protestante e spirito del capitalismo”.
Per quanto riguarda invece il mio parere personale sulla questione dei rapporti tra politica e religione, ma soprattutto se la credenza in D-o sia necessaria per essere buoni cittadini, credo che la fiducia nella credenza nell’Onnipotente siano uno dei capisaldi che faciliti l’essere buoni cittadini. Il fatto di riporre questa fiducia porta a comportarsi con gli altri come creature della stessa Entità, dunque come propri pari e simili. È l’applicazione del concetto “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”. In questo caso l’uomo è portato a vedere nell’altro, come in uno specchio, una sua immagine riflessa, fatto che può portarlo a cercarne di condizione.Qui non si tratta di parlare di compassione o commiserazione per l’altro come sosteneva Nietzsche riguardo al cristianesimo, ma di costruire un’ideale di uguaglianza, che poi non è che il caposaldo della democrazia stessa. Benché i giacobini e i girondini facessero derivare il tutto dalla semplice forza della Ragione, essi coniarono il motto “Liberté, égalité, fraternité” in cui è insito, nolente o volente, una forza divina.
Molto spesso il nostro credo laicista ci porta ad affermare che qualsiasi intrusione di elementi “divini” all’interno del campo politico sia negativo e controproducente all’affermazione di una democrazia perfetta, che però a volte assomiglia di più a un’utopia di stile marxista, dove la religione gioca solo il ruolo di “oppio dei popoli”.
Dove si nasconde il problema se l’idea di D-o è portatrice di elementi di unità e fratellanza universale? Anzi un tale ideale non potrebbe altro che amplificare l’amicizia tra i vari popoli e da lì portare ad un miglioramento delle varie condizioni di vita nazionali. Un simile mondo vedrebbe come obiettivo la riduzione delle divergenze economiche e sociali non solo nazionali ma anche internazionali.
D’altra parte però le religioni, come tutte le istituzioni, si fanno portavoce di istanze spesso conservatrici e immobilistiche, caratteristica collegata all’immanenza divina, che impedisce un corretto avanzamento delle legislazioni e una buona gestione delle problematiche sul breve periodo.
Inoltre uno dei problemi maggiori in materia è di carattere linguistico in quanto si tende spesso a semplificare il tutto all’opposizione democrazia-teocrazia. Questo fatto non prende in considerazione un altro termine, caricando così negativamente un termine come teocrazia che invece a mio parere dovrebbe avere un accezione positiva. Come Aristotele divideva il governo del popolo tra politia e democrazia, rispettivamente la forma corretta e quella degenerata, parimenti si dovrebbe fare con il “governo di D-o”, dividendolo in teocrazia e ierocrazia.
Spero che ti potermi confrontare su questi temi di riflessione anche all’interno del Vostro corso, alla ricerca di nuovi spunti di riflessione e nuovi campi d’indagine.
Lorenzo
mercoledì 22 agosto 2007
Cosa sono le sephirot?
Sephirot, Sephiroth, o Sefiroth (סְפִירוֹת), singolare: Sephirah, o anche Sefirah (סְפִירָה "enumerare" in lingua ebraica).
La parola Sefirot è connessa, secondo il Sefer Yesirah, con sefer (scrittura), sefar (computo) e sippur (discorso), che derivano dalla stessa radice SFR
Le Sephiroth nella Kabbalh Ebraica, sono i dieci attributi di D-o (a cui ci si riferisce con אור אין סוף Aur Ain Soph, "Luce Senza Limiti") attraverso i quali Egli può proiettarsi sul mondo e gli uomini. Le Sefirot non sono da intendersi come i gradi di una scala che va dalla Divinità al mondo, sono da intendersi più come i gradi della vita divina, all'interno del Dio stesso, bisogna però ricordare come lo Zohar sono il mondo originario della parola creatrice, ovvero il mondo dei Nomi di Dio.
- Keter : la Corona, la Volotà Prima, Il Divino Nulla
- Hokmah : La Saggezza, L'Inizio - Il Punto di Partenza, Il Primo Aspetto discernibile di Dio, Il Principio Maschile di Dio, Il Padre Superiore che feconda la Sephirah successiva.
- Binah : L'Intelligenza, Il Principio Femminile di Dio, L'Utero da cui deriva tutto il resto della Vita Divina e Terrena.
- Hesed o Gedullah : La Benevolenza, La Clemenza, La Misericordia, L'Amore.
- Geburrah o Pahad o Din : Il Potere, Il Terrore, Il Rigore, Il Giudizio.
- Tif'eret o Rahamin : La Bellezza, La Compassione, Il Principio Armonizzante.
- Nesah : L'Eternità, La Durata, La Vittoria.
- Hod : La Gloria, La Maestà, La Reagalità.
- Yesod : Il Fondamento, Il Giusto.
- Malkut o Sekinah : Il Regno, La Presenza, è l'ultima Sephirah, l'unica ricettiva.
"Tua, Signore, è la grandezza (Gedullah), la potenza (Geburah), la bellezza (Tif'eret), la vittoria (Nesah) e la maestà (Hod), perché tutto (Qol - appellativo di Yesod), nei cieli e sulla terra, è tuo. Signore, tuo è il regno (Mamlahah - altro nome di Malkut); tu sei colui che ti innalzi come testa (Ro's - le tre sephirot superiori) su ogni cosa".
Vi racconto una storia...
Hiram, il cui nome ebraico significa "Elevato", rappresenta l'Uomo per antonomasia, pervenuto, mediante la virtù, al massimo grado della nobiltà morale e come tale considerato un modellatore di anime, un grande Iniziato e iniziatore.
Egli, figlio di un Tiriano e di una vedova della tribù di Neftali, conoscitore dell'uso dei metalli e famoso Architetto, aveva conquistato la stima ed il rispetto del re di Tiro che portava il suo stesso nome e dal quale era chiamato "Padre".
Quando il Re Salomone decise di innalzare un Tempio all'Eterno, si rivolse ad Hiram, che fu nominato responsabile dei lavori ed ebbe i necessari poteri per l'esecuzione della monumentale opera.
Hiram ebbe alle sue dipendenze 183.000 operai, chiamati "Proseliti", cioè "Iniziati" che provenivano da tutte le parti del mondo e perciò parlavano tutte le lingue.
Al mattino, Hiram soleva radunare la moltitudine degli operai e ad un cenno prestabilito questi accorrevano dai tre lati luminosi dell'orizzonte, schierandosi e formando un mosaico di teste umane.
Ad un altro segno, tutti gli operai si rivolgevano verso Hiram, che con la mano aperta segnava una linea orizzontale, dal cui mezzo faceva cadere una linea perpendicolare figurante due angoli retti a guisa di squadra, segno con il quale i Sirii riconoscevano la lettera "T".
A questo segno la moltitudine si agitava come grano mosso dal vento.
Gli operai, suddivisi in Apprendisti, Compagni e Maestri conoscevano alcune parole, determinati segni e toccamenti, secondo la classe cui appartenevano, allo scopo di riconoscersi tra loro, e ricevere la mercede spettante secondo il genere di lavoro eseguito. Gli Apprendisti ricevevano il salario presso la Colonna "B", i Compagni presso la Colonna "J", situata ciascuna a settentrione e a mezzodì rispetto all'ingresso del Tempio, che si apriva ad occidente. I Maestri invece ritiravano il loro compenso nella Camera di mezzo.
Il nome della Colonna degli Apprendisti significava "Forza", quella dei Compagni "Saggezza".
Dopo sette anni circa dall'inizio dei lavori, la costruzione del Tempio volgeva alla fine ed era possibile accedervi attraverso tre porte: quella a mezzogiorno riservata agli Apprendisti, quella ad occidente riservata ai Compagni, quella ad oriente riservata ai Maestri.
Salomone, mediante un apposito editto, aveva stabilito, sotto pena di morte, che gli Apprendisti ed i Compagni uscissero dal Tempio la sera precedente il sabato per rientrarvi soltanto la mattina seguente tale giorno.
I lavori procedevano secondo le disposizioni del Re, ed il Tempio sotto la illuminata direzione di Hiram, aveva raggiunto un elevato grado di bellezza artistica e di maestosa imponenza.
All'improvviso, un orrendo delitto provocò la sospensione degli ultimi lavori, ed una profonda tristezza pervase tutti gli operai.
Quindici compagni insoddisfatti del loro salario, allo scopo di ottenere la stessa mercede dei Maestri, ordirono una congiura per impadronirsi mediante la violenza dei loro segreti.
Al momento dell'azione dodici compagni si ritirarono, mentre tre persistettero nel piano criminoso; tre Compagni che nella Leggenda sono indicati con il nome di Oterfurt, Eterkin, e Moa-Bon. Quest'ultimo fu chiamato poi "Abiran" cioè "assassino".
I congiurati sapevano che ogni sera, al termine dei lavori, Hiram si recava nel Tempio per controllare i progressi della costruzione, quindi si nascosero nel Tempio, ciascuno presso una delle porte: Oterfurt armato di un pesante regolo, Eterkin di una squadra e Moa-Bon di un grosso maglio.
Ispezionati i lavori, Hiram si avviò verso l'uscita a Sud e nella penombra scorse uno dei congiurati, Oterfurt, al quale domando: "Perché stai ancora nel Tempio e non hai seguito gli altri Compagni?" - Oterfurt con tracotanza rispose: "Maestro è da molto tempo che mi tenete nel grado di Compagno; voglio essere avanzato nel grado di Maestro". Con tono pacato Hiram a sua volta disse: "Da solo non posso accordarti la promozione, è necessario il consenso dei miei Fratelli; quando avrai ultimato il periodo necessario e sarai sufficientemente istruito ti proporrò al Consiglio dei Maestri". "Sono abbastanza istruito" replicò il temerario "e, non vi lascerò andar via, se prima non riceverò la Parola dei Maestri." Hiram di rimando: "Sciagurato! Non è così che io l'ho ricevuta e che si deve chiedere. Lavora con pazienza e sarai ricompensato". Il Compagno insistette ancora nella sua assurda richiesta e passo quindi alle minacce, ma Hiram lo redarguì con fermezza: "Invano speri di veder accolta in tal modo la tua pretesa; piuttosto che tradire il mio Obbligo, sono disposto ad affrontare la morte". Quindi, con un gesto della mano, invito il Compagno a ritirarsi, ma questi, adirato per la risposta negativa, vibrò un violento colpo di regolo in direzione della testa di Hiram colpendolo alla tempia destra. Il Maestro barcollò e stordito si diresse verso la porta d'occidente dove venne affrontato dal secondo congiurato ancor più minaccioso.
Hiram con la stessa fermezza di prima rifiutò la Parola, e il malvagio armato di squadra, lo colpì con violenza alla tempia sinistra. Il Maestro si piegò sul ginocchio destro poi si rialzò e barcollando si diresse verso la porta Est, si passo la mano destra sulla fronte per tergersi il sangue ed il sudore, por cercare un momentaneo sollievo alla sua grande sofferenza.
Invano tentò di sfuggire all'agguato, poiché alla porta Est si imbatté nel terzo congiurato che gli richiese la parola dei Maestri. Hiram irremovibile rispose: "Anziché violare il segreto affidatomi, preferisco la morte." Moa-Bon, il malvagio, lo colpì alla fronte con il pesante maglio e Hiram crollò esanime sul pavimento del Tempio.
Monte Sion
Franco F.
Roma, 16 giugno 1988
De retour
A parte gli scherzi la conclusione della tesi si è dimostrata un piccolo Duomo di Milano e in più il lavoro in FinPiemonte mi ha tolto un po' di verve ironica e creativa (come se per scrivere un blog ce ne volesse...).
Adesso sono ancora in vacanza per un paio di giorni poi quel treno pendolare mi riporterà nella città della Mole. Non è che ne sia contentissimo ma c'è di peggio nella vita... molto peggio. Dunque ho solo da ritenermi fortunato.
Ho appena finito di scrivere un capitoletto del progetto di ricerca di dottorato che presenterò a Sciences Po Bordeaux (come se non ne avessi basta della Francia) a metà settembre. Il titolo? Sionismo e messianesimo: ridefinizione di un'ideologia laica. Mi direte ma sempre con 'sti israeliani? Che vi posso dire Eretz Yisrael mi è entrata nel sangue. Speriamo di poter continuare questo progetto, anche perchè significherebbe passare un altro anno in quel magnifico Paese.
Incrociamo le dita
Che cos'è Degania?
Degania Alef was founded in 1909 by seven Second Aliyah Halutzim (Halutz), who came from Rumania, on land acquired by the Jewish National Fund. Although the economically successful as a settlement, the group dispersed a year later. In 1911, the place was resettled by a group of pioneers from Russia known as the "Hadera Commune".
Degania Alef was the first settlement based on communal living and became known as the "Mother of the kevutzot". Members of Degania Alef insisted on maintaining the frame of the small kevutzah, as opposed to the bigger collective settlement - the Kibbutz - and therefore, in 1920, with the coming of Third Aliyah pioneers, Degania Bet was founded. In 1932, part of the land was granted for a third collective settlement - kibbutz Afikim.
During the War of Independence, the Syrian army reached the gates of Degania Alef, but was bravely repulsed. A burnt Syrian tank remains on the site as a memorial. The two Deganias have a combined population of nearly 1,000. Due to the hot climate and abundance of water, both Deganias are engaged in fully irrigated farming. Degania Bet has also a metal factory and Kadish Luz were members of Degania Bet. A.D. Gordon, Arthur Ruppin, Otto Warburg and other founders of the labor settlement movement are buried on Degania Alef.